Nuove competenze del personale: come perseguirle?

by / giovedì, 23 Maggio 2019 / Published in Digital Transformation & Industry 4.0, HR
Le ricerche condotte da centri studi e associazioni di categoria per tentare di individuare le competenze necessarie per operare all’interno dei processi di trasformazione digitale in atto sono numerose. Un’analisi condotta dall’osservatorio industria 4.0 del Politecnico di Milano ha quantificato in circa il 6% le aziende italiane che hanno già posto in essere delle analisi strutturate delle competenze sul proprio personale prima d’introdurre progetti di innovazione digitale. Lo stesso osservatorio quantifica in circa il 42% le aziende che si stanno preparando per valutare nel breve termine le competenze del personale.
Tuttavia, prima di parlare di competenze, forse dovremmo ammettere che in molti abbiamo commesso degli errori privilegiando dei percorsi professionali basati su una sola forte competenza specifica in certuna o tal altra disciplina o settore, tralasciando il reale valore della interdisciplinarietà e le capacità di una persona di sapersi rimettere in gioco a fronte di improvvise varianti macro economiche. O, se si vuole, la capacità di applicare la logica dell’economia di guerra, a fronte di una sempre più aggressiva competizione internazionale, rispetto al miraggio dei mercati in continua espansione.
Mancando queste capacità, era inevitabile che, a fronte dell’evoluzione tecnologica drastica e repentina degli ultimi anni, molti professionisti venissero oggi esclusi dal mercato del lavoro con scarse possibilità di reinserirsi nel breve termine.
Logico, quindi, chiedersi quali siano le competenze che dovremmo avere già oggi e sicuramente padroneggiare domani. Si parla, per esempio, di nuovi indicatori da introdurre nelle strategie aziendali, quali ad esempio: il TBTS (= time between two surprises), ovvero il tempo che intercorrente tra due sorprese, e il Click Time, ossia il tempo quantificato, in pochi secondi, per rispondere ad un messaggio virtuale.
Certo, stupisce la richiesta di molte associazioni di categoria di individuare oltre 3000 manager specializzati nell’innovazione e ritenuti necessari per supportare i processi di adeguamento tecnologico delle PMI italiane. È doveroso porsi delle domande:
– Quanto sopra affermato non contrasta forse con la realtà di numerosi manager che hanno una rilevante esperienza aziendale e sono alla ricerca di un reinserimento nel mondo del lavoro? E con l’elevato tasso di disoccupazione intellettuale?
– È possibile colmare questo Gap di competenze con una formazione mirata?
Dobbiamo dire che gli esperimenti condotti sinora da business school e associazioni professionali non hanno conseguito significativi risultati in termini occupazionali. Inevitabilmente, ciò comporta anche una valutazione non sempre positiva inerente allo stesso mondo dei formatori, siano essi consulenti o docenti, che ancora illustrano modelli teorici d’Industry 4.0 sullo schema del piano Calenda, senza avere un’adeguata competenza.
Tutto negativo? Direi di no: esistono comunque elementi di valutazione che ancora ci consentono di correggere il tiro.
Possiamo, ad esempio, delineare alcune competenze di base che potremmo definire “il minimo comune denominatore” per tutti coloro che desiderano inserirsi nel mondo del lavoro in aziende con elevata tecnologia.
Credo che alla base serva la capacità di saper selezionare, gestire e analizzare i dati disponibili per comprendere ciò che costituisce “un reale valore” all’interno dei processi aziendali. Lo definirei un prerequisito fondamentale.
In sintesi, meno teoria su ipotetici mondi digitalizzati e maggiori contenuti legati alle tecnologie di base, ma soprattutto legati al buon senso; ricordando che il dato di per sé ha un valore nullo se non correttamente compreso ed interpretato.
Molte aziende ancora oggi vivono sul Know-How e sull’ esperienza dei propri collaboratori e sulla loro capacità di prendere decisioni intuitive in tempi brevi: inevitabili meccanismi di difesa al cambiamento, come Macchiavelli ben insegna nel “Il Principe”. Meccanismi che non possono essere superati con l’introduzione dall’alto delle tecnologie abilitanti Industry 4.0. Ciò contrasta con l’avvento dell’informatica e delle logiche di interconnessione delle reti che, se da una parte consentono sicuramente di ricevere velocemente una notevole quantità di dati, dall’altro aumentano la complessità decisionale in contrasto con coloro abituati ad una gestione immediata e prevalentemente intuitiva.
Oggi si vuole ridurre una rivoluzione industriale in semplici schemi informatici gestibili in remoto tramite il cloud e delle interconnessioni IoT, in grado di ridurre o azzerare il rischio decisionale.
Certo, creatività, intuito e percezione del mercato continuano ad essere elementi fondamentali, ma attenzione, a volte possono essere solo collaterali rispetto alle decisioni basate su delle solide competenze di base. È per questo che continuo ad assistere con scarsa soddisfazione a convegni e tavole rotonde sulla trasformazione digitale, senza un modello strutturale di riferimento e chiedendomi, alla fine, quale sia “il valore appreso e trasferibile come consulente nelle aziende Clienti”. Convegni dove, ad esempio, si confonde una strategia basata sulla produzione di massa di matrice tayloristica, con la personalizzazione di massa di “Don Peppers e Martha Rogers”; dove si banalizzano le logiche IoT tramite la connessione degli impianti, dimenticando che una connessione senza il contestuale ricorso all’intelligenza artificiale non consente poi di trasferire sempre più in basso una autonoma capacità decisoria su processi standardizzati e ripetitivi; dove si parla impropriamente di Big Data come un aspetto del Marketing, senza un minimo di conoscenza dei metodi statistici probabilistici e matematici applicati a sistemi complessi. Il tutto dimenticando che, se un prodotto non è valido, non bastano le migliori tecniche di vendita on linee o il sorriso del venditore per restare sul mercato.
Si parla di riqualificare gli “immigrati digitali”, riscontrando nel contempo un’oggettiva carenza nell’offerta formativa delle discipline fondamentali di strategia e organizzazione aziendale, dell’industrializzazione, dei tempi e metodi, dell’analisi del valore, delle tecniche d’affidabilità ecc., a fronte dell’abbondanza di offerta formativa sulle tematiche che definiremmo soft: digital coaching, digital team e new motivation. Perdurando questi approcci e in assenza dell’umiltà di sapersi rimettere in gioco, sarà improbabile riuscire a colmare il divario tra quanto richiesto dalle aziende e quanto offerto dal mercato del lavoro.
Mario Gibertoni
Presidente Gruppo StudioBase
CMC Academic Fellow
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